Siamo convinti che il ricordo e la parola siano, più di ogni altra cosa, atti partigiani: nel senso letterale del termine, di scelta -cosciente o meno- di una parte che vada ad informare la propria visione del mondo, che divenga poi base per qualsiasi prassi, che se moltiplicata esponenzialmente divenga prima politica, poi egemonia.
Abbiamo visto questo processo di politicizzazione, e militarizzazione, del ricordo e della parola, e lo abbiamo visto rivolto contro gli ideali che animano la nostra attività politica e l’azione della parte migliore di questo paese da decenni: abbiamo visto il degrado -concetto che si era ammantato, alla sua entrata in scena, di una veste di impegno civico, di partecipazione, di cura del bene comune- divenire l’unica categoria accettabile nella lettura dei processi sociali e delle migrazioni, fino a divenire spirito di legge e giustificazione per retate, violenze, disumanità.
Allo stesso abbiamo visto, nel progressivo affermarsi di quella lettura che, sui temi della gestione del dissenso e della diversità, ha unificato le maggiori forze politiche del paese, la chiave di volta ideologica di un disegno di delegittimazione non tanto di un mondo -quello degli ultimi, dei dimenticati, ma anche di tutti coloro che scelgono una parte nelle attività sociali, solidali, di prima e seconda accoglienza- quanto dei principi di umanità che vi sono alla base.
Per arrivare a provare il dolore e la vergogna, dopo aver visto la facilità con cui il massacro di una giovane donna di vent’anni e delle sue sorelline, di otto e quattro anni, nella narrazione pubblica non è riuscito a superare con la ferocia e la barbarie dell’uccisione, il dato dell’appartenenza a una comunità, quella Sinti, che può vantare di essere l’unica ufficialmente discriminata dalla nostra Repubblica.
Per arrivare al punto in cui l’uso egemonizzante di quel che si dice e non si dice, nella vita quotidiana, così come a mezzo dei principali organi d’informazione, diviene modo di riscrivere la storia, o meglio, le storie, spesso quelle per noi più dolorose: e capita di ritrovarsi, come è avvenuto ieri a Ponte Garibaldi, a ricordare una compagna ammazzata mentre da quel ponte scappava, e un lavoratore morto d’infarto mentre fuggiva da un controllo di polizia, giusto dall’altro lato del tevere.
Un’occasione, quella di ieri, per difendere l’uso di un ricordo e di una parola che sappiano portare con sé i valori e il pensiero necessari a ripartire: ricordare Nian, che dall’altra parte del Tevere si è accasciato mentre lo inseguivano, e dire che ne va della nostra dignità e del nostro futuro ricacciare ogni cedimento al razzismo, ogni cedimento a quell’ideologia del decoro che non fa che mascherare la lotta non alla povertà, ma al povero.
Ricordare, soprattutto, Giorgiana Masi, che quarant’anni fa “moriva, e su un ponte lasciò, lasciò i suoi vent’anni e qualcosa di più”, e ricordare che ad ammazzarla furono le forze dell’ordine che quel giorno sparavano su una manifestazione: per rispondere con il ricordo e la parola a chi -Cossiga prima, La Repubblica poi- ha dato spazio a ipotesi di fuoco amico, fino ad accusare di quella morte orrenda il compagno di Giorgiana.
Ricordare, anche per rifiutare di accettare che la storia divenga un omogeneo indistinto, per rifiutare la logica che vorrebbe con le parole tranquille della quotidianità appianare ogni diversità e nel far ciò celebrare la vittoria di una parte: per dire che le questioni sociali, le lotte per i diritti e la dignità, la vita di donne e di uomini profusa in quelle lotte, e la vita spezzata di quel giovane corpo -quel corpo di donna che oggi sarebbe ipocritamente trasformato in totem cui sacrificare la libertà in nome di decoro e sicurezza- sono troppo importanti per essere dimenticate, per non essere ricordate e dette con forza.
Lottando, e aspettando il giorno in cui potremo finalmente abbandonare la parola asfittica di questo tempo per tornare a parlare di vita e libertà, continuando a ripetere: Giorgiana vive!
Uni.Insur – Università Insurgente