Una generazione in cammino non si sgombera

Quando abbiamo visto le prime immagini ed i primi video di quel che è accaduto giovedì nove all’interno di via Zamboni 36 l’indignazione, la volontà di denunciare la nostra opposizione alla violenza che abbiamo visto messa in atto, la necessità manifestare la nostra solidarietà e la nostra vicinanza a chi da quella biblioteca era stato cacciato con la forza sono stati sentimenti sorti in maniera spontanea al netto di ogni ragionamento circostanziato.

A distanza di una settimana ci sentiamo in dovere di condividere alcuni ragionamenti, sulla base di due presupposti che riteniamo necessari: la solidarietà e la complicità a chi si è visto piovere addosso delle manganellate nei locali della propria stessa università era, ed è, dovuta, e le ragioni di quelle manganellate sono ben più profonde -e gravi- della singola vertenza che ha scatenato amministrazione universitaria e questura.

Presupposti importanti se -come è stato- a imporsi nel dibattito degli ultimi giorni è stata non solo la presa di posizione di chi -dal Partito Democratico alle destre- ha approfittato delle immagini del 36 per poter dipingere ad arte un movimento studentesco violento e privo di capacità di analisi e di proposta, ma anche e soprattutto un’operazione mediatica tesa a dirigere e appiattire qualunque intervento su una questione specifica -quella dei tornelli- e tacendo le questioni, molto più gravi del singolo episodio, che abbiamo visto dipanarsi in questa vicenda.

Perché in quei tornelli, e soprattutto nei commenti più o meno risentiti dei tanti che li hanno difesi e invocati negli ultimi sette giorni, c’è, paradossalmente, uno spaccato sincero di quella tendenza securitaria che la nostra società sta subendo, e che ovunque nel mondo viene cavalcata da destre più o meno estreme, più o meno mascherate, più o meno populiste.

Nei racconti del degrado -termine che ancora una volta si impone al dibattito a sproposito- che portano, secondo la ricostruzione che ad oggi è più facile leggere, l’Alma Mater a prevedere quei tornelli noi leggiamo gli effetti di un fallimento sociale e politico che è da imputare a quelle forze che hanno tacciato di violenza gli studenti che in questi giorni hanno provato a riprendersi un pezzo della propria università.

In pochi si sono interrogati sulle ragioni di una situazione sociale difficile quale è quella che viene raccontata dagli studenti -e l’esperienza diretta ci dice che il degrado che guadagna voti a Lega e Movimento 5 Stelle, ma anche al Partito democratico di un Merola qualsiasi, è il frutto dell’assenza di politiche rivolte agli ultimi, di meccanismi di esclusione economica e sociale radicatissimi, e più in genere di disgregazione dei valori solidali e comunitari che sarebbero, almeno a parole, patrimonio di una fascia della popolazione molto più ampia di quanto non lo siano i movimenti studenteschi.

E parlare di disgregazione di un’idea di società ci pare quanto mai appropriato, perché l’idea è stata quella di affrontare un problema non con un’attenzione maggiore alle dinamiche sociali e con quel controllo civile che si ottiene con la partecipazione e la vivificazione degli spazi, ma con la chiusura di un luogo a chi non fosse munito di un badge che ne attestasse l’appartenenza al corpo studentesco; cosa più grave, a giustificare il tutto abbiamo dovuto leggere che quella chiusura sarebbe stata in verità la restituzione agli studenti di un loro diritto -legittimato, essenzialmente, dal loro essere studenti paganti- ingiustamente usurpato.

Contro ogni finzione ed ogni retorica, dobbiamo ribadire che l’università e la società che abbiamo in mente non c’entrano nulla con quello che abbiamo visto in atto a Bologna: non possiamo in alcun modo giustificare chi prova a confondere il diritto all’istruzione con una performance erogata in cambio di un pagamento, anticipando nella narrazione che degli avvenimenti si tesse quel processo di aziendalizzazione che viene portato avanti da decenni, ma che è lontano dall’essere compiuto; non possiamo tollerare che si fomentino guerre tra poveri a coprire le responsabilità, gli interessi e l’incapacità di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica; non possiamo più accettare di essere schiacciati su dibattiti e temi che non rispecchiano la realtà da un’informazione che con quelle responsabilità e quegli interessi è troppo spesso contigua.

Perché a Bologna i tornelli sono stati la minor cosa, e non possiamo accettare di ridurci a parlare di quello: a Bologna i lati peggiori dell’Italia hanno provato a marginalizzare quanti si muovevano non tanto al singolo caso di una biblioteca universitaria che viene chiusa all’esterno, quanto all’atomizzazione dei corpi sociali, all’individualismo esasperato e incarnato dalle istituzioni accademiche, alla distruzione di una qualunque opzione solidale e mutualistica, e lo hanno fatto con l’arroganza e la violenza. Non ci sono riusciti.
Abbiamo il dovere di denunciare tutto ciò, di dire e dimostrare che la generazione che è stata piegata dalla precarietà e dalla devastazione sistematica dei diritti è capace di ripartire proprio da quei valori di inclusione, democrazia reale e solidarietà che vorrebbero far passare per morti.

Al 36 si è scritta una pagina buia di repressione, con una compagna ed un compagno tratti in stato di fermo, ma ne è scaturita una luminosa di partecipazione nelle assemblee che hanno visto gli studenti dare risposta, in migliaia, all’azione di rettore e questore: una pagina luminosa da cui trarre spunto e da rivendicare, con la chiarezza di chi sa esprimere le ragioni -giuste- che lo muovono crediamo che non saremo mai soli.

Uni.Insur – Università Insurgente