Resistenze

Pubblicato il 13 novembre 2015 | da Silvia Talini

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“La lunga marcia”: una migrazione vista dall’interno

Balcani e Ventimiglia: due realtà distanti migliaia di chilometri ma legate da una comune politica migratoria. Due territori che si cercherà di avvicinare negli appuntamenti di “incontri migranti” organizzati presso il Csoa La Strada

È in programma questo pomeriggio alle ore 18, la presentazione del documentario “La lunga marcia” di Amedeo Ricucci, il giornalista Rai che ha seguito il cammino dei profughi siriani lungo la rotta dei Balcani verso l’Europa.

Il reportage, proiettato alla presenza dell’autore, racconta “da dentro” ciò che vivono i protagonisti di questo lungo viaggio, mettendo a nudo l’inadeguatezza delle politiche migratorie europee. Ne abbiamo parlato con Silvia Di Cesare, insegnante della scuola popolare Piero Bruno che ha seguito Ricucci durante l’intero viaggio.

Dall’incontro con Amedeo Ricucci alla realizzazione del reportage: com’è iniziato questo lungo viaggio?

«Il viaggio inizia nell’isola di Lesbo, in Grecia, da dove i migranti – per la maggior parte siriani – iniziano il loro cammino attraverso i Balcani per arrivare a Vienna. Ed è proprio al momento degli sbarchi dalla Turchia a Lesbo, all’inizio di questo cammino, che ho incontrato Amedeo Ricucci arrivato anche lui sull’isola per documentare il viaggio dei migranti verso l’Europa. Quando mi ha parlato del suo progetto, e del punto di vista che voleva rappresentare, abbiamo deciso di camminare insieme per tutto il percorso fino a raggiungere Vienna».

Ciò che subito colpisce del documentario è la rappresentazione di un punto di vista “dall’interno” e non il semplice racconto del fenomeno migratorio. In che modo avete raggiunto questo risultato?

«Esatto, l’aspetto centrale del documentario (che ha animato l’intero progetto), era proprio mostrare per la prima volta il punto di vista del migrante, trasformandolo da oggetto passivo dei servizi giornalistici a soggetto. Nell’ultimo anno, infatti, molti mezzi di comunicazione si sono occupati dell’enorme flusso migratorio proveniente dalla Siria e diretto verso l’Europa ma nessuno lo aveva documentato dall’interno. Con “La lunga marcia” abbiamo quindi cercato di far parlare direttamente i migranti e le loro storie, non esprimendo un punto di vista strettamente documentaristico su quello che sta accadendo. Per fare questo abbiamo camminato con un giovane studente universitario siriano, Abud, e la sua famiglia lungo tutto il percorso».

Com’è stato l’incontro con Abud?

«Inizialmente abbiamo incontrato difficoltà nel trovare persone disposte a raccontare a viso aperto quello che stavano passando: scappano da una dittatura, la paura di ritorsioni contro chi è rimasto è grande. Invece Abud ha subito espresso l’esigenza di raccontare e far conoscere la sua Siria, la lotta di un popolo, i quattro anni di guerra civile e le motivazioni della sua partenza. È stata una scelta molto coraggiosa, suo padre non è riuscito a partire e diverse volte mi sono trovata a domandargli se non avesse paura: ogni volta mi sono sentita rispondere che dopo aver vissuto certe esperienze la paura era l’ultima sensazione che provava.
Ad affrontare il viaggio con lui c’era sua madre (un giudice) e con loro anche professori universitari, ingegneri e altre figure professionali; ci si rende sempre più conto che a scappare non sono singole famiglie, ma un intero popolo».

Durante il passaggio dei migranti tra le diverse frontiere, qual è stato l’atteggiamento delle autorità nazionali da un lato e dei volontari dall’altro?

«Il percorso, iniziato verso la metà di settembre, è durato circa dieci giorni e per quanto riguarda il passaggio delle frontiere è stato relativamente tranquillo perché, al di la di un posto di blocco presente in Ungheria, in quei giorni erano per lo più aperte. Il problema è nell’assoluto assenza degli Stati nella gestione umanitaria dell’enorme flusso migratorio. Al momento dello sbarco in Grecia l’unica forma di primo soccorso veniva offerta dai volontari o da organizzazioni internazionali non governative: al di là di questo non c’era nessuna autorità nazionale presente.
In realtà il discorso cambia quando dalla Grecia si raggiungono gli altri punti di confine, come la Macedonia e la Serbia: le organizzazioni governative che non si occupano della gestione “umanitaria” del fenomeno migratorio, iniziano un gioco al rimpallo attraverso l’utilizzo di pullman che portano i migranti verso la frontiera successiva. Giunti al confine, i profughi vengono fatti scendere prima della linea di frontiera e invitati ad attraversare la no man’s land in luoghi lontani da qualsiasi centro abitato. Dopo questo passaggio vengono trasferiti in campi di accoglienza o fatti salire su altri pullman che li portano direttamente alla frontiera successiva.
In questi spostamenti il supporto dei volontari e delle associazioni non governative è stato fondamentale, soprattutto per fronteggiare la totale mancanza di assistenza di primo soccorso durante i tragitti a piedi».

Quindi la politica adottata dai governi nazionali si traduce nell’esclusiva predisposizione di strumenti che agevolano il passaggio veloce del flusso migratorio?

«Si, ovviamente questa agevolazione è dovuta soprattutto al fatto che i governi sono pienamente consapevoli che i rifugiati non vogliono fermarsi nei Balcani, ma raggiungere il centro e il nord Europa: il problema è che tutto il sistema è gestito senza tenere in minima considerazione il rispetto dei diritti umani e la dignità della persona. Tutto è dettato dalla logica dell’emergenza e delle comunicazioni istantanee, vige un meccanismo di apertura e chiusura delle frontiere di cui i migranti sono tenuti del tutto all’oscuro e questo provoca forti tensioni, soprattutto all’interno dei campi. Questo, ovviamente, è anche lo specchio delle condizioni inumane in cui versano tutti i centri di accoglienza e della situazione di grave sovraffollamento; molto spesso le stesse famiglie sono costrette a dividersi tra chi ha un posto all’interno e chi è costretto a rimanere fuori.
A tutto ciò, ovviamente, si aggiunge l’enorme giro di denaro che ruota attorno a questo percorso: solo per arrivare a Lesbo, dove sbarcano ogni giorno tra le 3.000 e le 4.000 persone, occorrono 1.250 dollari per ciascun migrante. In alcuni trasferimenti è anche accaduto che gli autisti, dietro minaccia, si siano fatti pagare per il trasporto o che gli stessi pullman governativi fossero a pagamento, a testimonianza di numerosi business criminali che fanno del fenomeno migratorio una modalità di sostentamento».

Dopo la lunga marcia c’è Vienna: com’è vissuto l’arrivo e ciò che ne segue?

«Il primo giorno, ovviamente, è di completo entusiasmo perchè hanno la sensazione di essere arrivati nell’Europa che volevano. In realtà, trascorse le prime ore, iniziano a realizzare che il viaggio non è finito e che gli spostamenti verso il centro e nord Europa sono sostanzialmente bloccati; proprio per dare assistenza ai migranti una parte della stazione di Vienna, la train for hope, è stata allestita da alcuni volontari come punto di assistenza e sostegno per dormire e mangiare.
Quindi l’iniziale entusiasmo lascia presto il passo alla sensazione di dover ricominciare e alla paura di doversi dividere. La famiglia che abbiamo seguito nel documentario, ad esempio, ha dovuto prendere strade diverse: alcuni sono in Olanda mentre altri, diretti in Svezia, sono ancora bloccati in un campo di accoglienza in Germania in attesa della concessione dello status di rifugiati».

 

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