Glocal daesh

Pubblicato il 11 novembre 2015 | da Luigi della Sala

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A chi (non) fa paura il Daesh?

Analizzando la sua formazione si capisce come il Daesh sia, più che causa, l'effetto dei problemi che affliggono il Medio Oriente. Ma com’è possibile che un gruppo terroristico così “giovane” arrivi a controllare porzioni di territorio siriano e iracheno nell’impotenza degli attori regionali?

Uno degli effetti più dirompenti della crisi generalizzata che attanaglia il Grande Medio Oriente dopo lo scoppio delle cosiddette primavere arabe è costituito dal radicalismo pseudo – religioso del Daesh (acronimo arabo dello Stato Islamico dell’Iraq e Siria, o ISIS, vale a dire “ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām”), un gruppo terroristico islamista attivo in Siria e Iraq, il cui attuale capo, Abu Bakr al-Baghdadi, nel giugno 2014 ha unilateralmente proclamato la nascita di un califfato nei territori caduti sotto il suo controllo.

Nato dal forte malcontento della componente sunnita irachena dopo la fine del regime di Saddam Hussein e il graduale ritiro americano dall’Iraq, a lungo tollerato se non foraggiato da alcuni degli attori dell’area, lo stato islamico è pericoloso per via del suo essere esempio per altre formazioni jihadiste presenti nel mondo, cosa che potrebbe mutare questo movimento e farlo diventare da regionale a globale. Ma qual è la vera storia dell’ascesa di questo movimento? E quali sono state le reazioni degli altri attori attivi nell’area?

Un po’ di storia. Baghdad, Iraq, 23 Agosto del 2003. Paul Bremer, governatore civile dell’Iraq occupato dalle forze americane, firma il decreto che prevede lo scioglimento dell’esercito iracheno dopo l’abbattimento del regime sunnita di Saddam Hussein. Improvvisamente, 400.000 soldati dello sconfitto esercito iracheno sono esclusi da incarichi militari e trattamenti pensionistici. Sembra strano collegare la nascita del Daesh a questo avvenimento, che sembra così lontano in termini sia temporali sia di significato. Eppure, da quel giorno, numerosi ex – militari cominciarono a imbracciare le armi e a combattere contro gli statunitensi e contro il nuovo governo sciita iracheno da essi voluto. Non fu difficile unirsi ad uno dei tanti gruppi di combattimento che erano sorti con l’intento di riconquistare il potere in Iraq.

Uno dei più attivi era sicuramente quello guidato dallo jihadista salafita giordano Abu Mus’ab al-Zarqawi, il Jamāʿat al-tawḥīd wa l-jihād, fondato nel 1999. Il gruppo era particolarmente conosciuto grazie alla specializzazione nella pratica degli attacchi suicidi nei confronti di obiettivi civili e nella decapitazione degli ostaggi. Il gruppo di al-Zarqāwī, crescendo in forze, attrasse nuovi combattenti e nell’ottobre del 2004 si alleò ufficialmente con la rete di al-Qāʿida di Osama bin Laden, cambiando il proprio nome in Tanẓīm qāʿidat al-jihād fī Bilād al-rafidayn (Organizzazione della base del jihād nel Paese dei due fiumi, ossia la Mesopotamia), anche conosciuta come al-Qāʿida in Iraq (AQI). L’alleanza fu certificata da una lettera che Ayman al-Zawahiri, l’attuale presunto capo di al-Qāʿida, inviò ad al-Zarqawi nel luglio 2005, delineando un piano di alleanza basato su quattro fasi di espansione: espellere le forze statunitensi dall’Iraq, stabilire un’autorità islamica (un emirato), espandere il conflitto ai vicini laici dell’Iraq e prendere parte al conflitto arabo-israeliano.

Per ovviare alla morte di al-Zarqawi, avvenuta il 7 Giugno del 2006 in seguito ad un bombardamento statunitense, Il 12 ottobre del 2006 venne annunciata la fondazione del Dawlat al-ʿIrāq al-Islāmiyya (Stato islamico dell’Iraq, ISI), comprendente i sei governatorati più sunniti dell’Iraq. Abū ʿOmar al-Baghdādī si autoproclamò comandante, pur essendo di fatto solamente un prestanome, dato che il potere era detenuto dall’egiziano Abū Ayyūb al-Maṣrī, a cui venne dato il titolo di ministro della guerra. Entrambi vennero poi uccisi in uno scontro con soldati statunitensi e iracheni il 18 aprile 2010.

Cap Bucca, Umm Qasr, Iraq, estate del 2009. Il futuro comandante del Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi viene rilasciato dal campo di detenzione americano di Camp Bucca in seguito al parere di una commissione che ne raccomandava il “rilascio incondizionato”. Secondo la testimonianza di alcuni ex-internati, il campo era un vero e proprio centro di indottrinamento e addestramento per terroristi, con classi dedicate all’apprendimento delle tecniche per costruire autobombe o perpetrare attacchi suicidi. Il 16 maggio del 2012 Abū Bakr al-Baghdādī fu nominato nuovo comandante dell’allora Stato Islamico dell’Iraq. Al-Baghdadi ricostituì l’alto comando del gruppo, decimato dagli attacchi, affidando incarichi a ex militari ed ufficiali dei servizi segreti del partito Ba’th che avevano servito sotto il regime di Saddam Hussein. Questi uomini, molti dei quali già prigionieri delle forze americane, arrivarono a costituire un terzo dei venticinque più alti gerarchi di al-Baghdādī. Ed è proprio a partire dal 2012 che lo Stato Islamico dell’Iraq è intervenuto nella guerra civile siriana contro il governo di al-Asad, e nel 2013, avendo conquistato una parte del territorio siriano e scelto come propria capitale Raqqa, ha cambiato nome in Daesh, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).

Crescita naturale o artificiale. Tralasciando l’importante questione del modo in cui il Daesh si finanzia e cresce dal punto di vista militare, ad una prima e superficiale analisi, sembra, dunque, che lo sviluppo del Daesh abbia seguito una linea tutto sommato costante, che parte dall’invasione americana dell’Iraq e arriva fino allo scoppio della guerra civile in Siria. Da quel momento in poi, la crescita appare molto più pronunciata, aspetto in fondo spiegabile dal caos militare e politico che scaturisce dalla guerra civile in Siria. Ma dove sono finiti gli attori dell’area? Mentre il Daesh nasce, cresce e arriva a controllare parti rilevanti di territorio siro – iracheno, che fine hanno fatto quegli attori globali e regionali che non permettono che cada una foglia in Medio Oriente senza il loro intervento? E’ verosimile pensare che gli stessi attori che si mostravano così preoccupati per tutte le altre questioni di rilevanza strategica degli ultimi anni (come lo scoppio delle primavere arabe o la firma dell’accordo di Vienna sul nucleare iraniano) non abbiano dato peso all’ascesa del Daesh? In questo senso, ogni analisi sul Medio Oriente non può prescindere dal posizionamento e dalle azioni di tutti gli attori dell’area.

Le responsabilità di uncle Sam, il nascondino europeo, gli interessi della Russia. Cominciando dagli attori globali, gli Stati Uniti non hanno voluto perdere l’occasione di giocare un po’ al poliziotto globale che non ha (non vuole?) i mezzi per risolvere controversie regionali. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il terrorismo sunnita-iracheno che funge da motore del Daesh nasce con l’invasione americana dell’Iraq e si sviluppa negli anni successivi che si caratterizzano soprattutto per l’azione di governo inefficace e settaria del premier iracheno sciita al-Maliki (prima sostenuto poi abbandonato da Washington).

Per non parlare del fatto che è ormai assodato come il piano per costruire lo Stato islamico sia stato concepito da Abu Bakr al-Baghdadi insieme ad altri capi jihadisti proprio nel carcere militare statunitense di Camp Bucca, in Iraq. Tutto questo fino al 2008, anno dell’elezione di Obama. Da quel momento in poi, Washington sta attuando un parziale e graduale ritiro dalla zona, le cui basi teoriche possono essere ritrovate nella famosa strategia del “pivot to Asia”, mentre quelle pratiche sono da ricercare nella possibilità concreta che gli Stati Uniti diventino da fortemente dipendenti dal petrolio saudita ad un esportatore di petrolio grazie alla scoperta dello shale gas.

Questa sorta di piroetta strategica segue il fallimentare decennio delle guerre in Iraq e Afghanistan avvenuto sotto la presidenza Bush e chiude il cerchio delle responsabilità di uncle Sam all’insegna della solita timeline: partitella di Risiko in salsa mediorientale per esportare la democrazia e cambiare la mappa del Medio Oriente, apertura del vaso di Pandora mediorientale, ritiro precipitoso con costi umani ed economici enormi per tutti.

Per quanto deleteria, la politica americana nella zona aveva il merito di esprimere una visione, per quanto sbagliata, del Medio Oriente. Dal canto suo, l’Europa non ha voluto perdere il suo appuntamento con la storia, e si è presentata con l’offerta migliore della casa: interessi in competizione e divisioni a cura delle capitali del vecchio continente, dichiarazioni e piani d’azione a cura di Bruxelles.

Come non collegare il fallimento di tutti gli strumenti e le iniziative politiche e/o di cooperazione lanciate dai palazzi di vetro della capitale europea (tra cui spicca la Politica Europea di vicinato) allo sviluppo di movimenti radicali come quello del Daesh? Non si capisce per quanto tempo ancora potremmo tollerare il solito copione dei singoli paesi: Berlino si nasconde (quando è meglio), Parigi è così pateticamente gollista da essere l’unica a credersi ancora potenza pur non avendone alcuna caratteristica e a lasciarsi andare a pericolose tendenze nazionalistiche (si guardi al disastroso intervento in Libia prima e al bombardamento “tanto per” di alcune postazioni del Daesh), Londra oscilla tra interessi petroliferi e mancanza di risorse, Roma va in latitanza per ridurre al minimo le conseguenze del voltafaccia nei confronti di quei regimi ospitati con gran fanfare giusto qualche mese prima (anche qui, ogni riferimento alla Libia non è casuale).

Ci sarà modo per affrontare i veri nodi della questione, come per esempio il totale fallimento delle politiche europee cosiddette della condizionalità (aiuto in cambio di riforme strutturali), contenitori non abbastanza flessibili, trasparenti e dinamici per rapportarsi alla regione mediterranea nel 2015? Ci sarà occasione per trovare dei punti in comune per rendere l’azione delle capitali europee meno eterogenea e più efficace? Saremo finalmente in grado di fissare dei paletti (anche morali e valoriali) che ci aiutino a capire come, quando e perchè intervenire in determinate situazioni? O saremo ancora costretti ad accettare un intervento magari a guida NATO con effetti militari minimi ed enormi conseguenze negative dal punto di vista della reputazione nei confronti dei popoli mediorientali? Calma, piano piano. Per adesso meglio concentrarsi sulla migliore formula giornalistica che possa esemplificare cosa succede in Medio Oriente, al resto penserà qualcun’altro.

Alle scelte americane e alle non-scelte europee, fa da contraltare il ritorno della Russia sulla scena mediorientale, sostenuto da un robusto intervento militare nel conflitto in Siria in funzione anti-Daesh ma non solo. Le molteplici ragioni dell’intervento di Mosca rispondono alle seguenti logiche: sostenere fino alla fine il regime di al-Assad in Siria, tradizionale alleato e base di influenza del Cremlino in Medio Oriente, mostrare al mondo e al popolo russo l’impegno efficace e risolutivo di Putin, e continuare la lotta al terrorismo, individuato come fattore principale del nuovo disordine mondiale, costante e naturale ossessione di tutti gli zar russi. La Russia, insomma, vuole confermarsi nel ruolo di grande potenza regionale, impegnata al mantenimento degli equilibri globali, risoluta nell’esigere considerazione e rispetto per i propri interessi nazionali. Pazienza se questo significa impegnarsi in una regione caratterizzata da turbolenza endemica e instabilità strutturale, con potenziali rischi per la stabilità russa sia politica (impasse derivante dall’impantanarsi in Medio Oriente) sia sociale (per via di possibili attacchi terroristici da parte di gruppi islamici provenienti dall’esterno).

Il sultano, Bibi e gli “eccezionali” Saud. E gli attori regionali? Per la Turchia del sultano Erdogan, il Daesh è praticamente una sorta di alleato occulto che assolve ad una duplice funzione. La prima è legata al prima-amato-poi-odiato al-Assad, la cui permanenza al potere in Siria costituisce molto più di un mal di testa per Erdogan. Come già spiegato qui, il sultano le prova davvero tutte, arrivando a sostenere qualunque gruppo armato in lotta contro il regime di Damasco, partendo da al-Nusra (alleato di al-Qāʿida) fino ad arrivare proprio al Daesh.

Le ricadute sul territorio turco sono devastanti: mentre il confine tra Turchia e Siria diventa sempre più poroso (i due stati confinano per 911 chilometri), anche e soprattutto per via degli aiuti militari ai gruppi in guerra contro al-Assad, negli ormai 4 anni di guerra al regime siriano, Ankara si vede costretta ad accogliere una marea di profughi (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parla di più di 2 milioni di profughi nella sola Turchia). La seconda funzione è legata al destino della minoranza curda, vera e propria ossessione turca (e non solo).

Durante tutto il conflitto siriano, Erdogan rifiuta qualsiasi aiuto ai curdi siriani in lotta contro Assad e lo Stato Islamico, strategia visibile soprattutto nel famoso caso dell’assedio di Kobane. La ragione alla base delle scelte di Erdogan è ancora una volta strategica: l’idea mai sopita di un independentismo curdo di ampio respiro, capace di coinvolgere tutte le minoranze curde della regione (parte della Turchia, della Siria e il nord dell’Iraq) con l’obiettivo finale della creazione di uno stato curdo, comincia ad avere una sorta di plausibilità ancora maggiore con la crisi in atto in Siria.

Per l’Israele di Bibi il mediorientale (il primo ministro Benjamin Netanyahu), il problema sembra essere sempre e solo l’Iran. Il Daesh non sembra essere una minaccia plausibile, e sembra assolvere, invece, una triplice e vantaggiosissima funzione strategica. Primo, il Daesh è praticamente perfetto come baluardo sunnita in Iraq e altrove contro il sostegno di Teheran nei confronti degli sciiti. Secondo, più si parla e spettacolarizza il Daesh e meno si parla della sorte della Palestina e del conflitto arabo-israeliano. Terzo, il Daesh significa pericolo costante e militarizzazione necessaria, tradotto in lingua mediorientale: same as usual, e Bibi non chiede altro! E non sembra riflettere sul fatto che un movimento come il Daesh che si espande in territorio siriano non sarebbe di certo positivo, visto che Israele e Siria sono divise solo dalle alture del Golan.

Nell’Arabia Saudita di casa Saud, invece, l’iniziale miopia politica indotta dal bisogno di stabilità e conservazione sta lasciando il passo ad una strategia molto più attenta nei confronti della sfida posta dal Daesh. Se Riyadh lo ha dapprima finanziato come uno dei movimenti sorti per destituire al-Assad in Siria per poi disinteressarsi della sua iniziale ascesa, sembra adesso più spaventata dalle recenti sortite dei miliziani del Daesh in terra saudita. Ad ogni modo, proprio come per Israele, il Daesh assolve ancora un’importante funzione anti-iraniana in Iraq. Inoltre, Riyadh crede ancora di saper gestire movimenti pseudo-religiosi da proiettare all’esterno del paese, mentre l’Arabia Saudita sarebbe sempre e comunque preservata in virtù della sua posizione di garante dei luoghi sacri musulmani (Mecca e Medina). Come se non ci fosse un’alternativa all’eccezionalità saudita, a cui tutto è permesso. Infine, il Daesh ricorda all’”ormai vecchio” alleato americano quanto ci sia ancora bisogno della presenza fisica e politica di Washington nel grande Medio Oriente, che ha invece deciso di abbandonare l’area in seguito al Pivot to Asia, cosa che Riyadh non ha mai veramente digerito.

Il mostro provvidenziale pagato da al-Assad e Teheran…e i popoli? Insomma oltre ai curdi, che sul campo hanno combattuto i jihadisti, gli unici che sembrano non avere dubbi sul fatto che il Daesh sia un nemico mortale sembrano essere il regime di al-Assad in Siria e il suo grande fratello iraniano, entrambi molto preoccupati dell’ascesa di un movimento terroristico sunnita che mette a repentaglio regime e popolazioni sciite. Al di là della propaganda di tutti i media globali, pare chiaro che il Daesh non sia nato e sviluppatosi dal nulla, ma dietro alla sua ascesa ci siano precise responsabilità e ragioni che coinvolgono più o meno tutti gli attori che sono alla ricerca di una posizione di preminenza regionale in Medio Oriente.

Il Daesh assolve paradossalmente una funzione strategica rilevante, una sorta di mostro provvidenziale per perpetrare una competizione regionale a somma zero, dove il comune sviluppo non è possibile ma ci possono essere soltanto un vincitore e un vinto. E nessuno si fa scrupoli in questo gioco, così come ci ricorda proprio l’emergere del Daesh e l’ascolto della voce dei cittadini mediorientali che sembra tornato ai minimi storici. Dopo l’esaurirsi della dicotomia rivoluzioni/contro-rivoluzioni e lo scoppio della guerra civile in Siria, i fattori che hanno portato all’inizio di questa fase di instabilità sono ancora tutti presenti e comprendono la corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e la mancanza di interesse per le condizioni di vita, molto dure, che in molti casi rasentano la povertà estrema.

Insomma, situazioni interne di incredibile pressione sociale (i cicli demografici e la presenza di popolazioni molto giovani, le ripetute crisi umanitarie dopo decenni di guerre, il mis-match tra il conservatorismo delle società e lo sviluppo tecnologico, la mancanza di una qualsiasi forma di partecipazione alla vita politico/amministrativa dopo anni di autoritarismo, la mancanza di una qualsivoglia cultura politica della mediazione, la mancanza di fiducia nello stato sempre e solo visto come entità burocratica, l’utilizzo della religione come reazione e sfogo a tutte queste difficoltà) a cui rispondono elites diverse ma comunque sorde, che si contendono solo e solamente potere e influenza.

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