Dispacci idomeni

Pubblicato il 19 aprile 2016 | da Alessandro Stoppoloni

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Idomeni e le buone intenzioni

Continua la tensione al confine greco-macedone, dove migliaia di migranti restano bloccati ai margini d’Europa. Impressioni e dubbi di un volontario della carovana “Over the Fortress” che domani, insieme a Medici Senza Frontiere, sarà  a Casetta Rossa per un incontro organizzato dalla rete Welcome All

Il 20 aprile del 1968 l’allora sacerdote cattolico Ivan Illich (ascolta il podcast) tenne a Cuernavaca, in Messico, un discorso di fronte a un gruppo di volontari statunitensi impegnati in attività di cooperazione internazionale nello Stato latinoamericano. Durante la sua esposizione Illich criticò duramente chi lo stava ascoltando, accusando i volontari di imporre la loro presenza in un contesto che non conoscevano minimamente e in cui avevano la possibilità di confrontarsi solo con una minuscola élite che riproduceva i valori della classe media statunitense. Le buone intenzioni di cui erano carichi i giovani statunitensi, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, secondo Illich non offrivano un aiuto a chi soffriva, ma al contrario finivano per essere – involontariamente – un’efficacissima pubblicità per il sistema capitalistico, che tramite la loro presenza sembrava riaffermare la sua forza e la sua supposta inevitabilità.

Nei giorni che hanno preceduto la mia partenza con la carovana Over the fortress per il campo di Idomeni queste parole di Ivan Illich mi sono passate spesso per la testa. Il viaggio era stato senza dubbio organizzato con le migliori intenzioni: diverse realtà italiane con in testa Melting Pot e l’Ambasciata dei Diritti delle Marche si erano coordinate per portare solidarietà concreta ai migranti bloccati da molto tempo nei campi intorno ai centri abitati di Idomeni e Polykastro sotto forma di aiuti materiali e di una presenza fisica riconoscibile. Per me la motivazione maggiore era andare a vedere, volevo rendermi conto di persona della situazione.

Sul traghetto che da Ancona ci portava lentamente verso la Grecia ero abbastanza agitato. Vedevo la maggior parte dei miei compagni sicura di ciò che stava facendo (ma lo sarà stata veramente?) mentre io non potevo che sviluppare le mie preoccupazioni. Una delle cose che mi facevano più paura erano le difficoltà di comunicazione con gli abitanti dei campi e ciò non aveva solamente a che fare con la mia ignoranza dell’arabo: non capivo bene come sarei riuscito a confrontarmi con chi si trovava in una posizione completamente diversa dalla mia. Non ho preso nemmeno per un momento in considerazione l’idea di provare a pormi sullo stesso piano di chi mi sarei trovato davanti. Non capivo nemmeno su che basi si potesse impostare l’aiuto che stavamo portando: sapevamo con esattezza che cosa fosse necessario? Avevamo un’idea sulle modalità di distribuzione? Ci eravamo coordinati con chi già da tempo lavorava sul posto? Saremmo riusciti a non sentirci degli intrusi, a non apparire – pur non volendolo – come dei turisti?

Arrivando a Idomeni un ipotetico passante disattento potrebbe scambiare il campo per una specie di gigantesco campeggio, magari messo su per un festival di musica. Il problema è che dove uno si aspetterebbe di trovare il palco compare una frontiera, una di quelle che la mia generazione non è stata abituata a vedere. Dietro al filo spinato si vedeva in lontananza una bandiera della Macedonia, nitida ma irraggiungibile. Una ferrovia attraversa l’insediamento che è essenzialmente composto da alcune grandi tende di Medici senza Frontiere e da tante tende più piccole sparse sul territorio circostante. Soprattutto nelle ore serali l’aria si riempie dell’odore di plastica bruciata: esiste un servizio di recupero rifiuti, ma molta spazzatura rimane a terra e può essere quindi usata per accendere i fuochi. In tutta l’area del campo sono presenti tantissimi bambini che hanno avuto il grande merito di far sparire quasi istantaneamente molte delle mie preoccupazioni e il mio imbarazzo riuscendo a farsi capire e a stabilire un contatto rapidamente, anche con chi non hanno mai visto prima e con chi non parla affatto la loro lingua. In altri momenti però gli ostacoli linguistici si sono rivelati difficili da superare e spesso, con mia grande frustrazione, mi sono dovuto limitare a qualche frase di circostanza detta in inglese. Mi sentivo in una posizione scomoda: ero in un luogo di disagio e sofferenza consapevole che poi di sera sarei tornato a dormire in albergo e che di lì a poco avrei tranquillamente ripreso il traghetto per tornare in Italia varcando senza problemi quei confini che per altri sono barriere impenetrabili. A un certo punto mi è venuto spontaneo tentare di rendermi il meno appariscente possibile: ho tolto la pettorina arancione di Over the fortress e ho deciso di limitare il più possibile le fotografie.

Dopo il primo impatto con il campo ho sentito la necessità di trovare alla svelta un punto fermo. La possibilità di collaborare per una giornata con dei volontari di diverse nazionalità che si occupano quotidianamente di preparare pasti da portare al campo è stata ciò che serviva: impegnarsi in un’attività pratica mi ha tranquillizzato e le cose hanno iniziato ad assumere una conformazione più chiara. Nelle ore successive ho capito anche che qualche appartenente alla carovana aveva deciso di rimanere e che si voleva cercare di organizzare una presenza costante nel campo installando un collegamento Wi-Fi, strumento fondamentale per tenersi in contatto con le famiglie e provare a inoltrare le richieste di asilo. Il tempo è trascorso molto più rapidamente di quanto pensassi e al momento di andare via mi è dispiaciuto non poter rimanere qualche giorno in più.
Me ne sono comunque andato con più dubbi che certezze: quanto è servito il nostro aiuto? Abbiamo fatto la cosa giusta a venire qui con queste modalità e con tutte le contraddizioni che mi sembrava di vedere? Ci eravamo forse comportati, almeno in parte, come i volenterosi volontari che Illich si era trovato di fronte a Cuernavaca?

Credo che non sia possibile dare una riposta netta a queste domande: in questo momento vedo molte sfumature diverse dietro le quali si nascondono momenti frustranti e momenti belli che possono in egual misura contribuire a mettersi in discussione e ad affrontare le proprie contraddizioni. Un esercizio mai banale e sempre utile, a Idomeni come a Roma.

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