Resistenze scuola popolare

Pubblicato il 12 ottobre 2014 | da Livia De Paoli

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La prova del nove?

Calcola che ad Ottobre la Scuola Popolare riapre!

La Scuola Popolare si racconta in una breve storia di fantasia, inserendosi tra le aspettative e i dubbi di una bambina al primo giorno di scuola. Un modo nuovo per ricordare l’imminente inizio delle attività, fissato per metà Ottobre, e per ribadire la necessita di garantire il diritto allo studio per tutte e tutti attraverso un sistema scolastico che non lasci indietro nessuno.

“Le luci del secondo piano si erano appena spente. La finestra dava su un portone che si apriva ad una palazzina dai mattoni rossi, occupata da tre anni ed abitata da una quarantina di persone; l’impegno e il tempo lo avevano reso un posto esteticamente gradevole e umanamente accogliente. Lo stabile, un ex edificio scolastico in rovina, era stato abbandonato dopo che l’amministrazione comunale ne aveva dichiarato l’inagibilità e la cessazione di attività per mancanza fondi. L’impegno e la creatività della piccola comunità che lo aveva scelto come casa avevano portato quel vecchio palazzone dismesso ad essere il punto di ritrovo di diverse attività, tra cui una Scuola Popolare, che si era recentemente trasferita dopo lo sgombero dal sito originario.

Adelaide chiuse gli occhi. Ovviamente non riusciva a prendere sonno. Tra qualche ora l’orologio avrebbe segnato i primi minuti del 13 settembre. Un lunedì. Non un lunedì qualsiasi, ma il primo giorno di prima media. Un numero primo per un evento di primaria importanza: si sentiva emozionata come lo sono la maggior parte dei bambini ma percepiva anche un po’ di nervosismo. Ricordava le difficoltà dell’ultimo anno di quinta elementare con dovizia di particolari e con la frustrazione che le esperienze negative si trascinano dietro aspettando di essere smentite, esattamente come quando non torna la prova del nove per una divisione apparentemente esatta. Proprio quest’immagine, insieme al ricordo di infinite operazioni numeriche svolte senza troppi risultati, l’aveva accompagnata per un’estate intera, tanto che, per vincere le sue paure, Adelaide aveva finito con l’arricchirla di fantasiosi dettagli: i numeri nella sua testa non erano mai muti. C’era un otto che proprio non tornava, l’avevano cercato dovunque, ma voleva stare lì per forza, nella fila rossa delle decine, e poi il tre dell’unità che le sembrava perfetto fin quando il sei le diceva che serviva un pari, e allora cambia il tre con il quattro, aggiungi un due alle centinaia, togli un cinque, metti una linea e calcola il resto. In questo vortice di segni e numeri la maestra era là che la guardava dimenarsi tra svariati calcoli, trafficando con tutte queste matite. Non solo la guardava ma cercava di aiutarla, si avvicinava per darle una mano e quando sembrava averla raggiunta, ecco, che arrivava con fare risoluto un uno e le diceva che il tempo era poco, gli strumenti a sua disposizioni limitati e il suo compagno seduto due banchi dietro di lei aveva bisogno di una mano, così come Miriam al primo banco davanti la cattedra, e Rafal al secondo, per non parlare di Jhoanne e Claudia in fondo a sinistra. Tutti sembravano volere qualcosa e quasi sempre questa cosa non coincideva. Poi d’improvviso numeri e pensieri turbinavano ancora e Adelaide si ritrovava in classe, con tanti altri compagni e compagne, ognuno davanti la stessa divisione, e insieme il suo modo di leggerla, interpretarla, cercare di capirla; ognuno che dava una soluzione diversa per uno stesso numero, del resto a quell’età che cosa è un numero se non un modo di mettere insieme e definire oggetti e persone uguali, simili, più spesso diversi.

Così e in mille altri modi, Adelaide aveva passato gli ultimi mesi rimuginando sul problema: la matematica all’inizio le era piaciuta, si divertiva moltissimo con i regoli e l’abaco, era andata spedita come un treno quando avevano iniziato con le addizioni, la proprietà commutativa, quella invariantiva, e poi se l’era cavata anche con la sottrazione, infine i guai erano arrivati con i numeri più grandi e le operazioni più complesse. Faceva difficoltà a gestire quantità tanto grandi da non poter essere definite con nessuno degli strumenti che aveva sul banco, niente abaco o regoli, matite e pennarelli, non riusciva nemmeno contando i compagni di classe; solo doveva prendere un numero come quel duecentottantaquattro della divisione di prima, e scomporlo su un foglio bianco, senza che questo la potesse riportare a nessuna cosa visibile e palpabile se non il numero stesso.
Gli unici che le stavano simpatici erano i numeri primi: la maestra le aveva raccontato che loro non si lasciavano dividere, o per lo meno, aveva capito che era meglio non farlo, perché se dividi un numero primo poi saltano fuori i decimali, e quelli si che sono brutti, per ora preferiva non scomodarli. Del resto non era la sola, anche i suoi compagni avevano tentennato in questo passaggio, poi chi era andato avanti, chi si era bloccato, chi un giorno non aveva voglia, l’altro nemmeno, il terzo bastava provarci e ci riusciva.

I problemi sorti durante l’ultimo anno di scuola e la difficoltà nel fare i compiti, quando il programma scolastico si era fatto complesso, l’avevano portata a ridurre il tempo per le attività extrascolastiche: lo sport, i pomeriggi a casa o in villa a giocare con gli amici, le cene che gli occupanti organizzavano nella sala comune al piano terra, le domeniche in bicicletta lungo il fiume. Adelaide aveva cercato di impegnarsi ma non era bastato; con il crescere delle difficoltà, l’antipatia e lo scarso interesse che le suscitavano alcune materie avevano trasformato le giornate scolastiche in un interminabile susseguirsi di informazioni sconnesse, che aveva raccolto senza sapere bene dove collocare, una sommarsi di ore noiose ad ore frustranti, e alla fine anche la lezione di scienze e quella di geografia che le interessavano molto, avevano finito per risultarle un monotono ripetersi di “barbabietole da zucchero e buco dell’ozono”. Pensava prima o poi anche la maestra si sarebbe confusa e avrebbe esordito con un “barbabietole d’ozono e buchi di zucchero”.

Temeva che con l’inizio della scuola media si sarebbero accentuate le difficoltà emerse durante gli ultimi anni delle elementari: l’integrare il ritmo scolastico e la sua “lentezza” nel finire le cose, le aspettative dei genitori, che mostravano una certa apprensione per i risultati in termini di numeri – sempre loro, maledetti! – senza considerare i paragoni inevitabili tra compagni di classe, e per finire svariati racconti sulle medie in cui nessuno dei suoi interlocutori si era astenuto con il concludere “dal prossimo anno finisco i giochi”, e una pacca sulla spalla da interpretare a piacere come gesto di consolazione o incoraggiamento.
Per recuperare aveva dovuto studiare anche durante le vacanze, ci aveva provato, poi qualche giorno fa, alla fine di una lunga guerra fredda con un’equazione di primo grado, era scesa di sotto, da quei ragazzi che stavano sistemando l’ex segreteria in una specie di biblioteca, una parte della scuola popolare, e glielo aveva detto. Gli aveva raccontato di quel “sufficiente” preso poco prima della fine dell’anno, dei compiti che non riusciva a capire, del papà e la mamma che cercavano di aiutarla ma un po’ non si ricordavano più, un po’ era così noioso starli a sentire che aveva finito per dirgli che non c’era bisogno, ce la faceva benissimo da sola.
Loro all’inizio l’avevano aiutata con le equazioni ed i numeri, poi mentre sistemavano ne avevano approfittato per chiederle qualcosa di più, così lei le aveva spiegato meglio la “questione della divisione”, come la chiamavano a casa, e lo aveva anche scritto su un foglio: aveva risposto ad una serie di domande sulla scuola, il tempo libero, la famiglia, i compagni di classe, lei.
Anche se stavano ancora sistemando, e non c’erano altri suoi coetanei se non quelli che vivevano nell’occupazione, aveva continuato a passare, le avevano messo un po’ di curiosità, e cercava di capire cosa fosse questa scuola popolare. A volte li sentiva dal secondo piano che si riunivano fino a tardi. Iniziavano così: una ragazza prendeva un computer, un’altra scriveva su una lavagna nera “ o.d.g” seguito da una serie di punti numerati – ma era difficile che proseguissero in maniera ordinata dopo il due, strano il loro modo di contare, le piaceva! – un’altra tirava fuori dei dolci fatti in casa, una bottiglia di vino, mangiavano e ridevano, poi iniziavano a parlare più seri e poteva sentirli fino a quando non prendeva sonno. Parlavano di scrivere un progetto, sistemare il patto formativo tra operatori e ragazzi, dicevano che quest’anno avrebbero fatto dei tavoli di studio per materie ma dovevano anche preoccuparsi di chi non era pronto per lavorare in gruppo, di chi non aveva metodo e procedeva imparando tutto mnemonicamente solo in vista del compito in classe, di chi invece proprio non si voleva concentrare, faceva confusione e distraeva tutti. Sentiva qualcuno che parlava di organizzare un momento di incontro, forse una gita in bici, una festa nella scuola: era importante un momento di confronto perché quello era uno spazio di socializzazione e i rapporti avrebbero seguito regole elaborate e condivise da adulti e ragazzi. L’idea era un modello di educazione alla pari improntato sulla cooperazione tra ragazzi e con gli operatori, da un lato era necessario fissare gli obiettivi scolastici personalizzati per ciascun, trovare le strategie e gli strumenti idonei per raggiungerli, dall’altro lasciare il tempo alle proposte dei ragazzi per far si che il crescere delle relazioni rendesse le ore di studio utili e allo stesso tempo piacevoli. Avevano proseguito parlando di come insegnare l’italiano ad alcuni ragazzi del Bangladesh e del Marocco, che poco sapevano leggere e ancor meno scrivere, ma che si confrontavano quotidianamente con diversi compiti di scienze, storia, geografia, etc..

Adelaide li aveva sentiti parlare per molto anche quella sera, poi anche loro avevano finito ed erano tornati a casa, ma lei non si era addormentata, questa volta era rimasta sveglia fino a tardi. A sentire quei discorsi le era venuto in mente che chissà, magari quest’anno, anche con la matematica avrebbe avuto un rapporto migliore, e se non fosse stato così avrebbe comunque potuto sperimentarsi nella altre materie, vecchie e nuove. C’era il laboratorio di musica, storia dell’arte, una palestra all’aperto dove correre e giocare a pallavolo, forse la maestra di Italiano conosceva anche i libri di George Martin, e poi ci sarebbero state le gite con i nuovi compagni, magari avrebbero fatto un campo scuola, a Napoli,o a Firenze, chissà quante cose l’aspettavano.

Con queste e mille altre fantasie Adelaide aveva finalmente preso sonno, la prova del nove ancora non tornava, ma la cartella era pronta. Il pensiero di andare a scuola la mattina dopo non era stato più motivo di tanta preoccupazione.“

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