Resistenze Angela Davis

Pubblicato il 17 marzo 2016 | da Irene Salvi

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La rivoluzione non finisce mai. A lezione da Angela Davis

La militante e docente universitaria, icona delle lotte per i diritti civili negli anni '60, ripercorre con gli studenti di Roma Tre la storia del movimento afroamericano dalle Pantere Nere a Black Lives Matter

«Sebbene il regime segregazionista sia stato ufficialmente abolito oltre mezzo secolo  fa, troppe cose non sono mai cambiate». Angela Davis apre così la lezione tenuta lunedì scorso a Roma Tre, dal titolo “The meaning of white supremacy today”. Attivista e rivoluzionaria, militante del Partito Comunista statunitense e del Movimento per i Diritti Civili che ha profondamente segnato la storia moderna della prima potenza del mondo occidentale, Davis parte da lontano per raccontare il movimento Black Lives Matter (“le vite dei neri contano”) che negli ultimi due anni ha re-imposto la questione razziale nel dibattito politico ben oltre i confini degli USA.

Secondo Davis, recentemente – a partire dal 2014, quando l’omicidio del giovane nero disarmato Michael Brown per mano di un poliziotto bianco innescò proteste di massa concluse con decine di arresti e violenti scontri con le forze dell’ordine nel sobborgo di Ferguson, Missouri – gli US sono stati costretti a confrontarsi con uno scheletro rimasto troppo a lungo nell’armadio: lei la definisce “radicate State violence”, una violenza di Stato che colpisce più di tutti giovani afroamericani. Per Davis non bastano le – rarissime – condanne dei singoli agenti responsabili di comportamenti violenti, immancabilmente definiti casi isolati (da noi le chiamerebbero “mele marce”), ma è arrivato il momento di esigere cambiamenti radicali «nel linguaggio, nelle catene di comando, nell’impostazione militarizzata dei dipartimenti di polizia cittadini, nel ricorso sistematico all’incarcerazione di massa per reprimere le proteste».

Ricorda, da abolizionista ed ex detenuta (nei primi ’70 scontò due anni di carcere per accuse da cui fu poi completamente scagionata, anche grazie a un’enorme campagna di solidarietà internazionale) come il carcere sia ovunque un’istituzione profondamente razzista e classista. Ma soprattutto come, negli Stati Uniti – dove proliferano le prigioni private gestite in appalti milionari da aziende e corporations – la reclusione di intere fasce sociali sia un business portato avanti sulla pelle (quasi sempre scura) dei membri più marginalizzati della comunità: minoranze etniche, persone a bassa scolarizzazione, disabili mentali. E poi c’è la detenzione femminile: un terzo delle donne oggi recluse in tutto il mondo, sottolinea, si trova in una prigione statunitense.

Angela Davis sostiene che la forza innovativa di Black Lives Matter stia nella capacità di inquadrare la questione razziale nel quadro delle relazioni di sfruttamento connaturate al sistema capitalistico, che per gli afroamericani si traducono in esclusione sociale, ridotto accesso a scuole e servizi pubblici di qualità, sottorappresentazione nell’immaginario collettivo (è recente la polemica #OscarsSoWhite, che evidenzia la mancanza di “diversificazione etnica” nelle nomination agli Oscar). Dalla protesta di piazza, il movimento ha saputo riunire in breve tempo una nuova generazione di attivisti che oggi reclamano voce e rappresentanza politica: uno dei portavoce BLM, il mediattivista trentenne DeRay Mckesson, è oggi in corsa come sindaco della sua città, Baltimora, dove è in corso il processo per il caso del giovane afroamericano Freddie Gray, morto in custodia della polizia nell’aprile 2015. Un quadro in cui non suonano inattuali le rivendicazioni che le Pantere Nere avanzavano nello Statuto del 1966 (“Vogliamo la fine immediata della brutalità della polizia e dell’assassinio della gente nera; vogliamo che tutta la gente nera rinviata a giudizio sia giudicata in tribunale da una giuria di loro pari o da gente delle comunità nere, come è previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti”). Ma oggi il movimento potrà farcela, secondo la storica ribelle, solo se saprà superare «la logica identitaria del bianco/nero» e intrecciare le sue rivendicazioni con quelle di ogni persona che subisce discriminazioni e sfruttamento, dai migranti latini alle comunità LGBTQI («Ci sono legami evidenti tra razzismo, omo/transfobia e capitalismo») anche al di fuori degli Stati Uniti («non è un caso che in piazza, a Ferguson, ci fossero membri dei comitati BDS e attivisti palestinesi»).

L’Aula Magna della Scuola di Lettere, Filosofia e Lingue è affollata di studenti e giornalisti. Al termine della lezione, gli interventi dei docenti seduti allo stesso tavolo di Angela Davis si concentrano, nostalgici, sulle glorie del suo passato (gli studi con Adorno a Berlino negli anni ‘60, la nascita del movimento statunitense per i diritti civili e del Black Panthers Party nei ’70); gli studenti riportano la discussione al presente indicativo sollevando domande sulle prossime elezioni presidenziali US – dove la questione razziale sembra scorrere sottotraccia per tutti i bianchissimi candidati alle primarie – e sull’inattesa performance di Beyoncè al SuperBowl dello scorso febbraio. 30328462.sfLa popstar, che insieme al marito (il rapper Jay-Z) si era già schierata pagando la cauzione a tutti gli arrestati di Ferguson, ha concepito il suo show in apertura di uno dei più seguiti eventi sportivi al mondo – dai costumi al testo della canzone, in cui riecheggia il nome di Malcolm X – come un omaggio alle donne delle Pantere Nere. «Non esiste lotta senza musica» commenta Davis, la cui storia militante ha ispirato la canzone Sweet Black Angel dei Rolling Stones.

In chiusura interviene Dilar Dirik, attivista e ricercatrice curda, per ricordare il legame indissolubile tra autodeterminazione dei popoli ed emancipazione femminile. L”ex Pantera Nera la ringrazia: «ci sono molti tipi di femminismo, e sono tutti necessari».

Oggi Angela Yvonne Davis ha 72 anni; è docente universitaria, autrice di libri e articoli tradotti in decine di lingue, viaggia in tutti i continenti tenendo conferenze e lezioni. Ma l’eco degli anni delle Black Panthers torna a farsi sentire, quando la professoressa dai capelli grigi ricorda che «A volte produce più avanzamento qualche mese di rivolta, che interi decenni di governo».

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