Dispacci massimo pavarini

Pubblicato il 6 novembre 2015 | da Carolina Antonucci

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Governare la penalità, ricordando Massimo Pavarini

Il Dipartimento di Giurisprudenza di Roma Tre ha ospitato una lezione in memoria del penalista e criminologo bolognese

Mercoledì 4 novembre nell’ambito del corso “Diritti dei detenuti e costituzione – sportello legale nelle carceri” tenuto dal Prof. Marco Ruotolo e dal Dott. Patrizio Gonnella si è tenuta una lezione in memoria di Massimo Pavarini, penalista e criminologo, professore ordinario di diritto penale all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna scomparso nel settembre scorso a causa di un male incurabile.

A ricordarlo dall’aula 3 di Giurisprudenza erano presenti: Stefano Anastasia, sociologo e filosofo del diritto, ricercatore presso l’Università di Perugia, tra i fondatori dell’Associazione Antigone e già Presidente di questa; Tamar Pitch ordinario di filosofia del diritto sempre a Perugia; Mauro Palma attualmente vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) nonché presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa; Eligio Resta filosofo del diritto e ordinario proprio nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre; Luigi Ferrajoli giurista e accademico, uno dei principali teorici del garantismo penale; Livio Ferrari giornalista, da anni volontario in carcere e esperto in questioni penitenziarie.

Nato nel 1947, Massimo Pavarini negli anni Settanta si avvicinò al tema dell’esecuzione penale. Giovanissimo è stato co-autore, insieme a Dario Melossi, di “Carcere e Fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (1977)”, uno studio sul sistema penitenziario di impronta marxista in cui viene proposta una lettura economico-politica delle fondamenta dell’istituto detentivo. Massimo Pavarini e Dario Melossi facevano parte entrambi di quel gruppo di studiosi che fondò la rivista “La Questione Criminale” – ancora attiva, dopo essere diventata “Dei delitti e delle pene”, sotto il nome di “Studi sulla questione criminale”. Insieme hanno curato e tradotto l’edizione italiana di “Pena e struttura sociale” di Georg Rusche e Otto Kirchheimer – collaboratori della Scuola di Francoforte – opera del 1939 che il Mulino pubblicherà in Italia per la prima volta nel 1978. È Luigi Ferrajoli a ricordare come Massimo Pavarini si sia avvicinato con coraggio al carcere in un momento in cui questo era considerato dall’Accademia tutta come un tema non nobile di riflessione. La teoria della pena era allora ignorata, subiva un vero e proprio “bando di esclusione” dalle Università. Pavarini ha disegnato un progetto teorico, epistemologico, per una scienza giuridica integrata, offrendo una visione della questione penale a tutto tondo, che sapesse, cioè, andare al di là della pura teoria giuridica e della normatività. Da penalista è stato sì un teorico della pena e del sistema sanzionatorio, ma ha integrato le sue ricerche arricchendole con un punto di vista sociologico e criminologico, con un’attenzione al tema del controllo sociale, portando avanti una critica radicale al sistema penale tradizionale, alle sue istituzioni e anche al tema della cultura d’emergenza. Eligio Resta ha parlato, riferendosi alla teoria di Pavarini, di un modello integrato di scienza del diritto penale; la sua era una descrizione sul carcere mai isolata: una critica che andava ad indagare “il dentro”, l’istituzione carceraria, per comprendere “il fuori”, la società tutta. Era una posizione di critica radicale nei confronti dell’ideologia correzionalistica come ha rievocato Mauro Palma. Stefano Anastasia ha ricordato come il pensiero di un teorico come Pavarini abbia rivestito un’insostituibile centralità per la stessa nascita di un’associazione come Antigone, nonostante il suo scetticismo di fondo circa la possibilità di rivendicare concretamente dei diritti per i detenuti.

Negli anni Novanta Massimo Pavarini ha dato vita a un pioneristico lavoro di analisi sulla domanda di sicurezza sociale che non avrebbe più conosciuto, fino ai nostri giorni, un’inversione di tendenza. Vedeva con preoccupazione l’incremento nel senso comune della paura e dell’incertezza circa l’incolumità personale e dei propri beni. Temeva, vista la corrispondenza con le prime elezioni dirette dei Sindaci (1993), che il tema della sicurezza potesse essere cavalcato a fini elettorali e esacerbata la percezione del rischio con intenti demagogici. È Tamar Pitch a ricordare meriti e limiti del lavoro di Pavarini nell’ambito del progetto “Città sicure” (ora Forum città sicure), promosso in collaborazione con la Regione Emilia Romagna. L’obiettivo che si poneva Pavarini era quello di depotenziare il rischio repressivo che si celava dietro il concetto di sicurezza e per farlo era convinto che si dovesse decostruire questa domanda di sicurezza che sembrava provenire dai cittadini.

È di Massimo Pavarini la prefazione del libro di fresca uscita di Livio Ferrari “No prison: ovvero il fallimento del carcere” (2015). Un libro abolizionista, di riflessione sull’inutilità dell’istituto della pena detentiva. Questo libro è un manifesto che vuole denunciare come la realtà dentro il carcere sia caratterizzata esclusivamente dalla violenza, dalle torture e dalla morte. E Massimo Pavarini era convinto che le prigioni fossero dei luoghi da chiuderle. È il contesto stesso da cui promana la legittimazione del diritto di punire a essere cambiato. È necessario per questo ricostruire un nuovo paradigma del diritto di punire che trovi radici profonde nel rispetto della dignità delle persone e dei diritti dei detenuti e delle detenute.

È la moglie Pirca, compagna di una vita, medico e da sempre convinta della necessità di una riflessione sul rapporto tra medicina e sofferenza e dell’irragionevolezza della sopportazione del dolore, a concludere la giornata. “La pena si infligge, come il dolore. Non vi è ragione perché si debba intenderla come una restituzione di sofferenza. L’atto del delinquere comporta una frattura nel tessuto sociale. È necessario dunque ricomporre questa frattura, ma per farlo è necessario trovare un modo che non comporti sofferenza e dolore. Questo è il messaggio di Massimo”.

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