Cultura

Pubblicato il 2 novembre 2015 | da S. C.

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Makers e studenti, prospettiva di un dialogo necessario

Dei quattro attori che hanno animato la vicenda Maker Faire Roma, per due, studenti e makers, un dialogo non solo è possibile, ma assolutamente necessario. Ecco perché

Sono passate ormai due settimane dalla Maker Faire romana.
Quanto basta, forse, per provare a fare delle riflessioni al di là del precipitato degli eventi, spiacevoli, che l’hanno travolta. Prima della terza edizione di questo raduno espositivo europeo dei Maker, CORE Online aveva annunciato una ricognizione tra i padiglioni alla ricerca di ricette per la sostenibilità, di esperimenti interessanti per il territorio e per la città, con lo spirito critico ma curioso che ci contraddistingue.
Non ci è sembrato però che i fatti, ovvero le cariche della polizia contro il sit in di protesta degli studenti dell’università Sapienza, proprio davanti all’ingresso della fiera, potessero essere in alcun modo secondari al racconto dei padiglioni.
Nè tantomeno ci è sembrato ci fosse bisogno di un commento, o di un report dei fatti, tout court.
Quattro fermi – poi convertiti in arresti domiciliari e obblighi di firma – e vari feriti gravi.

L’occasione per riprendere il discorso ce l’ha data però un documento che una rappresentanza dei Maker e dei relatori che hanno partecipato all’evento ci ha affidato a fine Fiera.
Ecco il testo integrale del documento:
Roma 18 ottobre 2015
Come rappresentanti attivi (espositori e speaker) della Maker Faire Roma 2015 condanniamo l’eccessiva violenza con cui la polizia di Roma ha represso la manifestazione degli studenti che chiedevano l‘accesso libero alla Sapienza.
Ci aspettiamo che le cinque persone ancora in stato di fermo vengano rilasciate quanto prima.
Allo stesso tempo ribadiamo la convinzione che la Sapienza sia il luogo giusto in cui aver organizzato questa Fiera che parla di sapere condiviso, di sharing economy e di produzione dal basso ed invitiamo gli studenti, che evidentemente non si sono sentiti coinvolti, a partecipare al processo che quotidianamente vede coinvolti gli spazi in cui lavoriamo (FabLab,  Makerspace, Coworking, Orti urbani, Officine artigiane condivise, e via dicendo) che si caratterizzano per l’apertura al territorio, nel tentativo comune di costruire un nuovo modello economico che valorizzi le reti sociali.

Seguono circa ottanta firme a penna.
Il comunicato, di cui a fine articolo alleghiamo una foto, è nato spontaneamente durante lo svolgimento della MFR per iniziativa in particolare di Leonardo Zaccone, del Fablab Roma Makers e di Alex Giordano, cofondatore di Ninja Marketing e presidente del Rural Hub.
Le firme, di circa ottanta tra i rappresentati del mondo maker, sono state raccolte, sempre in forma di adesione spontanea, girando per i padiglioni della Fiera.
«Certamente -racconta Zaccone- non è stato possibile raggiungere tutti gli espositori e relatori, e, certamente, c’è stato chi ha rifiutato di firmare. Per disinteresse, o per non condivisione del contenuto. Ma comunque, mi è sembrato il minimo che si potesse fare. Non è certo con indifferenza che abbiamo accolto la notizia degli episodi di violenza, che abbiamo assistito alle cariche della polizia. E, per me e per chi ha firmato, era impossibile non sentirsi toccati da questi spiacevoli eventi, che, nostro malgrado, accadevano in qualche misura a causa nostra».

Opportunista o no, non è una solidarietà scontata. Che quasi ottanta persone, che si sono incontrate lì a vario titolo e in varie forme organizzate o non organizzate affatto, abbiano apposto il proprio nome e cognome in un clima generale di totale assenza di un canale comunicativo tra studenti e makers, ci pare un segnale da cogliere. Senza questo segnale, la riflessione che andiamo a fare non troverebbe conferma.

Giovedì scorso Wu Ming 1 pubblicava su Internazionale un lungo articolo sull’opinione di Pier Paolo Pasolini sulla polizia. Lungi dal voler strumentalizzare Wu Ming, e men che mai Pasolini, lo spunto di riflessione non è così forzato. In una delle poesie ampiamente dibattute nel pezzo sono chiaramente riconoscibili quattro attori sociali. Ci sono gli studenti, la polizia, gli operai nelle fabbriche e la borghesia. Pasolini, argomenta Wu Ming 1, usa un evidente paradosso, solidarizzare con la polizia (tra le altre cose nell’articolo si sottolinea l’evidente uso provocatorio e parossistico da parte del poeta di una tale affermazione di solidarietà) perché gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Ma soprattutto, seguendo entrambi, si arriva al nodo che qui ci interessa per cui sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un pò di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”.

E qui ci fermiamo, perché, davvero, l’intento non è strumentale. Ma tra un tweet dall’interno della fiera che esalta le grandi innovazioni in mostra, e un tweet fuori dalla fiera, dove si vedono sangue e camionette schierate, lo stridore è forte e allo stesso tempo, bisogna saper vedere che è puramente intrappolato nel contesto.
Guardando la scena da fuori, come un quadro, o dall’alto, come un drone che dalla città universitaria decolla per sorvolare l’esterno, è possibile distaccarsi per tracciare linee prospettiche, relazioni potenziali, antecedenti lo scontro che non ha permesso l’incontro.

Gli attori sono sempre quattro. Ci sono gli studenti, c’è la polizia, c’è un mondo di persone che lavora ‘facendo cose’ e ci sono i poteri forti.
Certamente chi gestisce l’università come fosse una prestigiosa azienda anzichè un’istituzione democratica, e chi è ai vertici delle grandi corporation 2.0, non ricalca esattamente il ruolo della borghesia a cui si riferisce Pasolini. Ma è un attore ben riconoscibile nel quadro, che esercita un potere contestato e contestabile.
Si tratta dunque, certamente, di impedire all’università di agire come potere forte, come Srl quale ormai è e non manca occasione di dimostrare, facendo accordi con l’obiettivo del profitto e della visibilità competitiva nel mondo accademico e rinunciando alla sua missione principale, quella di rappresentare la popolazione che la anima, ovvero gli studenti.
Si tratta, certamente, di ricordare all’ateneo di svolgere, come un suo preciso dovere, il ruolo di mediatore culturale. In primis verso gli studenti, e poi con tutta la cittadinanza.

Allo stesso tempo certamente ‘chi fa cose’, il mondo makers, non incarna quella forza sociale contrattualizzata, sindacalizzata, operaia, che strappa gli accordi per la rivendicazione sociale.
Ma potrebbe esserlo? O, più facilmente ancora, potrebbe semplicemente farlo nella pratica, senza passare per la teorizzazione?
Non è forse già il mondo dei Fablab e dei coworking, un incubatore di pratiche di mutualismo, di ammortizzazione sociale, di percorsi condivisi volti alla formazione e professionalizzazione del singolo e delle comunità locali?
E se non lo è già, non è forse un terreno fertile a diventarlo? Un luogo ricco di capitale umano prima che tecnologico?

Non si tratta dunque di chiamare gli studenti borghesi, o figli di borghesi, per quanto molti lo saranno anche. Molti sono figli di precari e disoccupati, moltissimi sono precari e disoccupati.
Non si tratta neanche di contare quanti avranno indossato dispositivi tecnologici fabbricati da una multinazionale nel contestare una fiera all’interno della quale c’era anche chi propone e realizza oggetti, e servizi, attraverso cicli di produzione alternativi e sostenibili. Consapevolmente e volutamente fuori dalla catena industrializzata.
Non si tratta neppure di scoprire quanti inventori, precari, studenti, ricercatori, nella fiera avranno sperato di fare ‘networking’ per vendere le proprie idee o il proprio knowhow a grandi corporazioni. Indossando, anche loro come noi tutti, i medesimi dispositivi tecnologici globali. Nè, infine, c’è bisogno di ricordare quante delle imprese presenti stessero meramente escogitando il modo di spremere capitale dal paradigma dello sharing.

Si tratta di riconoscere la presenza di quattro attori sociali.
Di anticipare, con precisa intenzione costruttiva, le linee prospettiche dell’incontro-scontro, di stabilire e separare i dialoghi possibili da quelli impossibili. Di mettere a valore le relazioni potenzialmente scaturibili da visioni comuni.
Tra questi, due attori sono dei movimenti. Si muovono. Si organizzano, sono animati da coesione e tensioni ideologiche che non hanno prospettive opposte. Possono al contrario incontrarsi in un’etica comune, una visione di futuro e di città.
Una visione di lavoro dignitoso.

In un paradigma classico di definizione della Smart City, il modello a tripla elica, si descrive l’intelligenza sottesa in un sistema urbano come lo sviluppo interattivo dei tre settori che sono il pilastro della società contemporanea: governance, università e imprese.
In un recente articolo su Ninja Marketing viene sottolineato come le 5 professioni più richieste dal mercato del lavoro ad oggi, non abbiano un percorso di formazione universitario.
Tutti i convegni sull’economia collaborativa sono pieni di neolaureati disoccupati. Di questi, una porzione notevole si troverà a svolgere, free lance a partita iva, una professione il cui nome, per non parlare della funzione, non sono compresi da più della metà dei suoi concittadini. Ma che tutti conoscono in un coworking. E sempre lì, incontrerà gran parte delle persone che negli ultimi anni ha perso il lavoro e solo lì sta trovando riscatto.

Il mondo dei Makers non è più, non è solo, un raduno di smanettoni che si ritrovano fuori dal garage. Ma è sempre più una comunità plurale che realizza luoghi di incontro e scambio attivi nella città. Luoghi che trovano spazio, che nascono, anche nei centri sociali occupati, nelle fabbriche abbandonate, nel terzo settore come nelle sedi dell’associazionismo no profit. E si caratterizzano per l’apertura al territorio proponendo percorsi culturali, formativi e informativi.

Allo stesso tempo il mondo del lavoro, come tutti i comparti della società, si sta rivoluzionando rapidamente con l’avvento del 2.0. Ma al contrario dei settori più controllati come la scuola, la pubblica amministrazione, perfino i mercati finanziari, dove le riforme, sì discutibili e snaturanti, sono però organiche, nel mondo delle professioni e di ciò che ne consegue per la realizzazione umana e professionale degli uomini e delle donne di questa società, i cambiamenti stanno avvenendo senza alcun accompagnamento, salvagente o possibilità di previsione.

Anche per questo, e perché la rivoluzione non si fa nelle università, ma nel luogo del lavoro, il dialogo tra studenti e makers non solo è possibile, ma è assolutamente necessario.

Intervista al Collettivo Sapienza Clandestina
di Irene Iodice

Abbiamo parlato con Francesco e Pietro, portavoci del Collettivo Sapienza Clandestina, un’organizzazione di studenti delle varie facoltà dell’ateneo nata nel 2013 con l’occupazione del Lucernario (ex teatro della Sapienza), sull’impronta dell’ex studentato occupato Degage. Il loro obiettivo è quello di incoraggiare la lotta per il diritto allo studio e la garanzia su di esso, riappropriarsi degli spazi abbandonati all’interno della città universitaria e trasformarli in aule di studio, biblioteche e luoghi ricreativi, creare iniziative che soddisfino i bisogni degli studenti e sensibilizzare i ragazzi attraverso corsi di autoformazione e di notizie dal mondo.

Che rapporti avete con l’Ateneo?
«Quello che abbiamo con l’Ateneo è un rapporto-non rapporto: cerchiamo un contatto con il rettore Gaudio ma piuttosto inutilmente; noi proponiamo iniziative, laboratori, manifestazioni e loro rispondono con denunce e sgomberi. Non c’era interesse ad ascoltarci quando c’era Frati, il vecchio rettore, e non c’è con Gaudio, l’unico rapporto che instaurano con noi è tramite la Digos e la Celere».

Dalla manifestazione del 16 ottobre è trapelata un’antipatia verso la Maker Faire: il vostro rapporto con i makers è negativo a prescindere o sono state le modalità con cui si è svolta l’iniziativa a portare allo scontro?
«Non è sbagliato il concetto di innovazione e dell’esposizione in una fiera, è sbagliato dal momento in cui questo progetto (che nasce da un discorso di condivisione, orizzontalità del sapere, nuove tecnologie) viene messo a profitto. L’innovazione non è più sociale, orizzontale, larga e condivisibile ma diventa per un èlite, poco accessibile perché resa molto costosa dal marchio della multinazionale che se ne impadronisce. L’innovazione per noi non è il drone, ma il diritto allo studio e il diritto all’alloggio per tutti gli studenti, anche quelli senza possibilità economiche».

In cosa è consistita la vostra campagna divulgativa contro la Maker Faire?
«Tutto è partito dai social network per poi trasformarsi in azioni concrete quali assemblee pubbliche, azioni di volantinaggio, cortei dimostrativi e manifestazioni all’interno della città universitaria».

Finita la Maker Faire, qual è il bilancio della protesta: cosa si è ottenuto, quali sono i risultati e i non risultati?
«Il risultato più grande è stata la capacità di questa campagna di aprire dibattiti e discussioni tra il mondo dei Makers, smuovendone la coscienza, facendo in modo che ci si ponesse degli interrogativi su determinate modalità d’azione». 

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