Pubblicato il 8 aprile 2015 | da Cecilia Chianese
“Second Chance”: la perdita e la redenzione
La regista danese Susanne Bier, vincitrice dell’Oscar nel 2011 con "In un mondo migliore", torna in patria dopo una breve parentesi americana, dirigendo in "Second Chance" un film non completamente riuscito sulla maternità e sul carattere ambiguo del male.
Proiettato a Roma nel cinema Farnese, “Second Chance“ è un thriller psicologico dalle tinte estremamente cupe, criticato in maniera quasi unanime dai giornalisti nostrani e stranieri. Il film mostra due coppie antitetiche, la “coppia perfetta” composta dal poliziotto e padre modello Andreas e da sua moglie, con un figlio di poche settimane chiamato Alexander; contrapposti a Tristan e la sua fidanzata, tossici e piccoli criminali, anch’essi genitori di un bambino appena nato chiamato Sofus, del quale non si prendono sufficientemente cura. La situazione si complica quando il figlio di Andreas muore per una (apparente) casualità, e lui, colto da una sorta di raptus ma allo stesso tempo sicuro di essere nel giusto, scambia il cadavere di Alexander con Sofus, rapendo il pargolo per portarlo tra le braccia della sua disperata moglie.
Le lacune del film della Bier si notano sul duplice piano della narrazione e dello stile: se nel primo caso la regista pecca di arroganza, mettendo in scena un dramma complesso, filtrato da un’ottica semplicistica e manichea; nel secondo caso l’estetica del film risulta piuttosto manierista. Soffermandosi in maniera auto riferita sulla perfezione delle inquadrature, la regista dirige un film a tesi, rigido e costruito. Uno sterile perfezionismo che si nota fin dalle prime scene, nella scelta di porre il titolo del film perfettamente a filo dell’acqua del mare che viene inquadrato, tagliando in tal modo in due lo schermo. Se un film intero può essere definito da un’unica inquadratura, per “Second Chance” può essere questa: tanto elegante quanto fine a se stessa. L’opera della Bier mette in mostra un racconto all’interno del quale tutti i pezzi finiscono per incasellarsi perfettamente, seguendo un percorso che porta dove la regista ha precedentemente deciso di portarti, senza intoppi o deviazioni, senza possibilità di interpretazioni aperte o di ambiguità, come un discorso tautologico, che non lascia libertà interpretative allo spettatore, costretto ad assistere ad una storia allo stesso tempo drammatica ed asettica. Risulta a mio parere incomprensibile la connessione fatta dai critici tra la Bier ed il connazionale Lars von Trier. Se a ben guardare vi è in Second Chance una tematica già affrontata da von Trier in Antichrist (film), ossia l’ambivalenza materna verso il figlio, il paragone tra i due finisce qui. Nonostante il tema comune, la maniera tramite la quale viene declinato è opposta, in quanto ciò in cui la Bier fallisce, è proprio quello in cui von Trier eccelle, tanto in Antichrist quanto in altre sue recenti opere, ossia nel coniugare uno stile aulico con un senso fisico di dolore che trabocca dallo schermo, stemperando ed allo stesso tempo esaltando l’impatto delle sue storie. Se von Trier ha il coraggio di osare, e di portare i suoi film su percorsi impervi e non tracciati, mostrando un talento unico nel rappresentare una visione angosciata ed angosciante tramite forme a volte sublimi, la Bier sembra partire da presupposti morali troppo presuntuosamente chiari e definiti, ed ergersi a giudice senza volersi mai realmente “sporcare le mani”. In tal modo le sue storie estreme vengono rappresentate con uno stile didattico, e mancano dunque al loro intento, cedendo sotto un peso che la regista non sembra essere in grado di sorreggere.
Titolo originale: A Second Chance
Lingua originale: danese
Paese di produzione: Danimarca, 2014
Regia: Susanne Bier
Distribuzione: Teodora Film
Interpreti: Nicholaj Coster-Waldau, Maria Bonnevie, Ulrich Thomsen, May Andersen.


