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Pubblicato il 17 maggio 2015 | da Luigi della Sala

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Turchia, il sogno egemonico di Erdogan

Corteggiata dall’Ue e indicata come modello di democrazia islamica, fino al 2010 Ankara è stata protagonista della politica di potenza regionale. Cinque anni dopo l’inizio delle primavere arabe, la situazione strategica turca si è completamente ribaltata. L’approfondimento geopolitico

Alle periferie del Levante, ma pur sempre immersa nei giochi strategici del grande Medio Oriente, la Turchia di Erdogan è uno dei paesi più colpiti dai terremoti geopolitici degli ultimi anni. Ankara ha vissuto, infatti, una sorta di completo capovolgimento della propria situazione strategica cominciato con l’inizio dei sommovimenti regionali, a tal punto che si potrebbe parlare di una Turchia pre e post primavere arabe.

Un modello neo ottomano       Prima del dicembre 2010, i numerosi anni di impetuosa crescita economica, l’enorme supporto popolare, il controllo più o meno effettivo dei potentissimi militari e l’apertura sostanziale nei confronti dell’odiato nemico curdo contribuivano a far splendere il sole neo-ottomano dentro e fuori i confini di Ankara. Erano gli anni in cui Erdogan (primo ministro dal 2003 al 2014) veniva presentato come il “musulmano buono”, la prova vivente che democrazia e Islam erano due termini conciliabili, un modello di governo per tutti i paesi confinanti, mentre il suo ministro degli esteri, Davutoglu (in carica dal 2009 al 2014, e adesso primo ministro), provava ad approfittare pienamente della doppia opzione strategica turca, da una parte entrare nell’Unione Europea, dall’altra diventare l’attore principale in Medio oriente, grazie alla politica del “zero problemi con i vicini”.

Tutto cambia dalla fine del 2010, quando il propagare dell’incendio di rivolte spinge il sultano Erdogan a rischiare tutte le fiches in suo possesso: massimo sostegno alle rivoluzioni in atto e condanna dei regimi al potere. Unica ragione alla base di questa scelta, il proprio interesse strategico. All’inizio la mossa sembra vincente, nei paesi dove l’incendio rivoluzionario attecchisce si guarda alla Turchia come esempio, come modello da seguire, fin tanto che Erdogan è il primo leader musulmano in assoluto a visitare un paese come la Libia, per esempio. Spiccano su tutti il sostegno ai fratelli musulmani in Egitto e ai gruppi rivoluzionari in guerra contro il regime di Assad in Siria, considerato da Erdogan più che un alleato fino a pochi mesi prima, visto anche il suo tentativo riuscito di creare addirittura un legame di amicizia personale proprio con lo stesso Assad.

Di fatto, la Siria costituisce il vero e proprio spartiacque strategico di Ankara, dalle stelle alla stalle, dal sogno neo-ottomano all’incubo dell’irrilevanza geopolitica. L’amato-odiato Assad, infatti, resiste molto più di quello che si potesse lecitamente pensare, o almeno più del dovuto, e Ankara si spinge così in là da sostenere qualunque gruppo armato in lotta contro il regime di Damasco, partendo da al-Nusra (alleato di al-Qaida) fino ad arrivare al “califfo” dell’autoproclamato Stato Islamico, entità statuale non riconosciuta sita tra l’Iraq nord-occidentale e la Siria orientale, il cosiddetto ISIS. Le ricadute sul territorio turco sono devastanti: mentre il confine tra Turchia e Siria diventa sempre più poroso (i due stati confinano per 911 chilometri), anche e soprattutto per via degli aiuti militari ai gruppi in guerra contro Assad, negli ormai 4 anni di guerra al regime siriano, Ankara si vede costretta ad accogliere una marea di profughi (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parla di almeno 1,7 milioni di profughi nella sola Turchia).

Il tramonto del sogno egemonico         Nel frattempo, la controrivoluzione è in atto ovunque nella regione, spinta dai regimi del Golfo (con l’importante eccezione del Qatar), pronti a tutto pur di conservare l’esistente ed evitare che si possa almeno immaginare una via diversa rispetto a quella da lor imposta, fatta di sussidi e petro-assolutismo. L’intervento saudita in Bahrein prima e Yemen poi, ma soprattutto la restaurazione avvenuta in Egitto attraverso l’intervento dell’esercito e la deposizione di Morsi, il presidente espressione dei fratelli musulmani, mostrano come tutto sia cambiato radicalmente in un tempo relativamente breve.

I contraccolpi della scommessa persa da parte di Erdogan sono enormi. In un intreccio tra politica interna e estera, fattori endogeni e esogeni, il sole neo-ottomano tramonta per far posto ad una notte lunga e buia.

La crisi finanziaria globale spinge molti investitori a non scommettere più su Ankara, mettendo a nudo le fragilità di un’economia in via di sviluppo fortemente dipendente da investimenti esteri. Per la prima volta dopo tanti anni, la crescita di Ankara non è più impetuosa, aggiungendo un ulteriore elemento al discontento trasferito dalle primavere arabe e che aveva ormai già contagiato il paese. Le famose proteste di Gezi park avvenute a Istanbul nel dicembre 2013 mostrano come la Turchia non sia una bolla immune a questo contagio, e il potere prima considerato legittimo adesso ritenuto autoritario di Erdogan scricchiola non poco. E Gezi park era stato solo l’inizio, in realtà. Il sequestro del magistrato Mehmet Selim Kiraz da parte di due esponenti del gruppo di ispirazione marxista-leninista Dhkp-C; l’irruzione di un uomo armato in una delle sedi del partito Akp, proprio il partito di Erdogan; il più grande blackout degli ultimi 15 anni, che ha condizionato oltre 76 milioni di persone in 80 delle 81 province turche; gli scontri a Istanbul avvenuti il 1° maggio tra manifestanti e forze dell’ordine; questi i fatti più rilevanti dall’inizio del 2015.

La questione curda       Gli effetti sulla situazione curda sono altrettano preoccupanti. Sfruttando il combinato disposto del bisogno di rispettare le minoranze sancito dall‘Unione Europea come condizione per ogni negoziato e il bisogno dell’AKP di avere a disposizione una maggioranza parlamentare dei 2/3 per promuovere un ambizioso programma di riforme istituzionali, Erdogan aveva sostenuto il dialogo in atto tra i servizi segreti turchi e Abdullah Ocalan, lo storico leader curdo attualmente rinchiuso nella prigione di Imrali nel mar di Marmara. Questa pre-trattativa ha aperto la strada ad un negoziato di più ampio respiro tra governo turco e il BDP (il partito della Pace e Democrazia, il partito curdo “legale”, diverso dal PKK, il partito dei lavoratori curdo da sempre considerato fuorilegge), al fine di convincere i curdi a concludere la lotta armata e a ritirare la parte delle proprie milizie stanziate in territorio turco. Come corollario di questo accordo, è stato anche costituito un organismo parlamentare responsabile del monitoraggio e della comunicazione pubblica del negoziato. Ma anche sul fronte curdo, la guerra ormai dichiarata ad Assad in Siria cambia tutte le carte in tavola.

Durante tutto il conflitto siriano, Erdogan rifiuta qualsiasi aiuto ai curdi siriani in lotta contro Assad e lo Stato Islamico, strategia visibile soprattutto nel famoso caso dell’assedio di Kobane. La sua proposta per una soluzione temporanea al conflitto siriano prevedeva la creazione di una sorta di zona cuscinetto a cavallo del confine tra Turchia e Siria, idea che è subito sembrata più un modo per controllare l’independentismo curdo che un appoggio reale alla loro causa. La ragione alla base delle scelte di Erdogan è ancora una volta strategica: l’idea mai sopita di un independentismo curdo di ampio respiro, capace di coinvolgere tutte le minoranze curde della regione (parte della Turchia, della Siria e il nord dell’Iraq) con l’obiettivo finale della creazione di uno stato curdo, comincia ad avere una sorta di plausibilità ancora maggiore con la crisi in atto in Siria. Erdogan non puó permettere che la minoranza curda stanziata in Turchia possa davvero credere di poter unirsi a questo progetto, seppur al suo stato embrionale. Ma ancora una volta il sultano rischia grosso, anche perchè il governo turco del suo vecchio braccio destro Davutoglu aveva scommesso molto su questo negoziato. Il risultato è uno scontro interno tra i due che potrebbe deflagrare in una sorta di guerra aperta per il controllo del partito prima e del paese poi.

Fine di un ciclo?         Il fallimento del sostegno (fortemente selezionato) ai movimenti rivoluzionari della zona, mostra come la Turchia non sia più un attore indispensabile per risolvere crisi e trovare soluzioni ai problemi mediorientali. Al di là dell’aver scommesso sui giocatori sbagliati, pare chiaro ai più che la condotta strategica di Ankara sia stata troppo guidata da interessi temporanei e abbia mancato di profondità, concorrendo allo sviluppo dell’idea che della Turchia non ci si può fidare. Il contraccolpo di immagine in tutto il mondo, ed in particolare tra le masse arabe, è significativo, il modello turco sembra svanire con una velocità di sicuro maggiore rispetto al suo emergere.

Insomma, il sogno neo-ottomano sembra tramontare definitivamente, al punto che Erdogan si sente costretto a riaprirsi a tutti gli attori regionali della zona, vedasi i suoi ultimi tentativi di riavvicinarsi a Israele ed Egitto, ed i suoi recentissimi viaggi in Iran e Arabia Saudita.

Non perdiamo di vista la realtà: il suo potere interno e la sua influenza politica ne fanno comunque l’attuale centro nevralgico della Turchia, visto e considerato che è diventato presidente della repubblica con il 52% dei voti alle elezioni tenutasi nell’agosto 2014. Il prossimo appuntamento elettorale, le elezioni parlamentari che si terrano il 13 giugno, saranno un’altra prova cruciale in questo senso.

Riuscirà il sultano ad ottenere i 2/3 dei seggi in Parlamento, necessari ad emendare la costituzione e trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale? Quanto peserà su questo suo progetto la guerra fredda tra lui e Davutoglu, attuale primo ministro? Insomma, state pur certi che il sultano avrà il suo bel da fare per rimanere saldo al comando, in un contesto interno che ribolle a causa dello scontro tra una società sempre più sviluppata che mal si bilancia con le sue derive autoritarie e in un contesto regionale in continuo e rapido mutamento.

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